Da un paio di anni mi stavo rendendo conto che quel fornitore di tessuto dal quale avevo acquistato materiali ineguagliabili cominciava a evidenziare problemi legati alla propria esistenza. L’apertura scriteriata ai mercati globali e la depressione del mercato interno stavano mettendo in discussione la sua sopravvivenza. Le presenze nelle fiere espositive si diradavano. La fusione con un altro gruppo, tanto velleitaria quanto improbabile, faceva presagire la cessazione imminente della sua attività. Certo, mi doleva assai perdere un fornitore con una storia e un’attività almeno centennale, un tassello importante della filiera tessile del made in Italy. Cominciai con malinconia a risfogliarne le referenze di tessuto di almeno un ventennio, che avevo conservato con cura maniacale. Queste referenze, che mi venivano spedite di anno in anno e di stagione in stagione, mi servivano di volta in volta per la scelta e la preparazione delle collezioni. I tessuti che mi passavano tra le mani venivano chiamati con nomi tipo Alaska, Alce, Cervo o Antilope, quasi a voler evocare l’idea di grandi spazi aperti. Su ognuno di essi c’erano i miei appunti che man mano andavo prendendo. Su uno di questi c’era un nome diverso dagli altri – “Milcin” – e ne venivano evidenziate la grammatura e l’altezza. A fianco, i miei appunti dicevano: “velluto con lavorazione a ciniglia nido d’ape, tessuto di derivazione rurale”; lo cominciai a sfregare tra le mani per valutarne consistenza e “mano”, come si dice in gergo. Mi trovavo di fronte a un tessuto tostissimo, certamente non una roba da “signorino” o da “fighetto”: si presentava unito e compatto, assai differente dai tessuti a ragnatela o a carta impiegati ormai diffusamente dalle multinazionali dell’abbigliamento. Quel tessuto fiero e senza tempo prometteva qualità e resistenza: a mio giudizio sarebbe durato almeno per tre generazioni. Già lo vedevo applicato e trasformato . Il problema che mi si presentava per l’acquisto di questo tessuto era legato all’anno della sua presentazione, rispetto al quale era trascorso troppo tempo. Telefonai con scarse speranze al reparto commerciale della ditta per verificare se, tante volte, ne avessero una scorta in magazzino: niente da fare. Sempre meno convinto, chiesi allora se fosse possibile produrlo con i telai interni di proprietà aziendale: quasi inaspettatamente, la risposta fu positiva! Ancora incredulo, mi affrettai ad ordinarne una buona quantità, che di lì a qualche settimana mi sarebbe stata consegnata. Dopo un mese l’azienda avrebbe chiuso i battenti. Quel tessuto speciale era solo per il nostro marchio, un’esclusiva mondiale. Pensai subito alla sua applicazione, a come l’avrei trasformato in gilet e giacche destinate alla vendita, però con il proposito di conservare alcuni capi per noi. Sarebbero rimasti nel nostro archivio, custoditi gelosamente come tracce “fossili” di un mondo che stavamo ormai perdendo.